È la domanda che mi sento fare più spesso ultimamente.
Come va.
Va, che benediciamo tutti che sia arrivata, perché non riuscivamo più a stare dietro alla caterva di compiti con cui le maestre cercavano di compensare le lacune del forzato fermo didattico.
Peccato che adesso alla caterva di compiti si siano aggiunte lezioni su lezioni.
Va, che la piattaforma si inchioda, ed è tutto un “mi sentite? Gino non ti sento, Pino spegni il microfono… bzzz… bzzz… mammaaaa mi ha buttato fuori un’altra volta” (e tu scusandoti con il cliente di Singapore voli in camera a riavviare il tutto, facendo saltare mezz’ora di lezione…)
Va, che una volta ho perso la password e mi sono fatta venire una crisi isterica e ringrazio che il maestro tecnologico della nostra scuola mi ha risposto in mezz’ora.
Va, che io con il computer me la cavo bene, e Davide anche meglio.
Ma va, che con la didattica me la cavo molto peggio.
E io ho sempre sognato di fare la maestra, ma non sono preparata.
E ho dato anni di ripetizioni e la differenza fra numeratore e denominatore me la ricordo ancora, così come mi ricordo certe costruzioni arzigogolate in inglese, e mi piace scrivere quindi anche con riassunti e le comprensioni del testo me la sfango.
Ma va che non riesco a stare dietro a tutto.
E stampo, fotocopio, e aiuto a ricopiare, e a sommare, a studiare, a ripetere, ma vivo nell’ansia del tag “consegna in ritardo”.
Io vivo perennemente in ritardo.
Sono riuscita a trovare un uomo che mi ama così tanto da amare anche il mio essere ritardataria, giustificandolo come un modo tutto mio di interpretare il tempo in maniera personale e creativa. (È quello giusto, lo so ).
Ma in questi giorni il ritardo si è mutato in affanno.
L’affanno in ansia, e l’ansia in frustrazione.
Va che certi giorni mi sembra di non farcela più a gestire tutto, e come risultato divento intrattabile, e urlo e sgrido Davide per qualsiasi sciocchezza e a volte riesco persino a farlo dubitare di essere un bravo
studente, tutto considerato.
Va che in certi momenti vorrei piangere, per la stanchezza e la frustrazione, altri per la tenerezza e l’orgoglio nel vedere Davide che si impegna, e cerca davvero di mettercela tutta, ma quello schermo è un limite troppo grande.
E lui vorrebbe intervenire, alzare la mano, rispondere, magari suggerire la risposta al suo compagno di banco, o tirare una pallina di carta a quello davanti e invece no, deve stare inchiodato su quella sedia di plastica su cui siede appollaiato, cambiando posizione ogni cinque minuti per resistere alla voglia di saltare dentro lo schermo e abbracciare i compagni e le maestre.
Va che la scuola sta finendo, e la voragine di questi mesi sarà difficilissima da colmare. E non parlo di didattica, no.
Parlo di relazioni umane, di autonomia, di crescita personale, di indirizzi educativi, di parole giuste al giusto momento di difficoltà, di amicizie da consolidare, di approvazione da ricevere, di competizione sana, di socialità.
Va che sono uscite finalmente le linee guida per settembre e alla mamma chioccia che è in me si stringe il cuore a pensare al mio pulcino alle prese con l mascherina tutto il giorno.
E la madredimerda che è in me non vede l’ora di sbolognare di nuovo alla scuola tutte le responsabilità che competono a loro, e soprattutto di restituirgli mio figlio, o quel che ne è rimasto dopo questa quarantena.
Sperando sia in grado, la Scuola, quella con la S maiuscola, di salvarli questi nostri ragazzi. Di ascoltare le loro paure più profonde, maturate in questo difficile lockdown, e di costruire insieme a loro il ponte che li accompagni dall’altra parte della paura.